Tiziana Villani, Ubaldo Fadini, Stefano Righetti, Igor Pelgreffi, Cosimo Lisi, Gianluca De Fazio, Francesco Demitry, Piergiorgio Caserini, Marco Tronconi.
Millepiani 43 – Le crepe del presente
Filosofia critica della vita quotidiana
7. Premessa di Tiziana Villani e Ubaldo Fadini
11. L’inatteso tempo dell’adesso di Tiziana Villani
21. Filosofia afferrata per tempo. Per una critica del presente di Ubaldo Fadini
37. Perché è necessario rinnovare la critica di Stefano Righetti
57. Apprendimento, funzione. Qualche appunto in chiave critica di Igor Pelgreffi
79. Contro la digitalizzazione di Cosimo Lisi
101. Del bisogno radicale di rovesciare l’infelicità Ipotesi per l’ecologia di un sentimento sociale di Gianluca De Fazio
117. Pratiche creative di conflitto di Francesco Demitry
129. Note su un pensare-paesaggio di Piergiorgio Caserini
143. Illich tra passato e presente. Critica della società (post)industriale di Marco Tronconi
155. I quadri di Stefano Vailati di TizianaVillani
In che modo e con quali strumenti è possibile interrogare il nostro presente che si pone come un tempo sospeso, solcato non solo da pandemie e guerre ma anche da crepe, margini e aperture insospettate? In questo volume gli autori si sono impegnati nel tentativo di riattivare strumenti critici provenienti da scuole di pensiero, come ad esempio quella di Francoforte, che sono stati capaci di elaborare una critica del quotidiano protesa a formulare “futuri possibili”. Queste riflessioni nel percorso di ricerca di “Millepiani” vogliono sottolineare il significato di un lavoro collettivo, espresso in molteplici tonalità nei contributi raccolti, su alcune dinamiche di resa contraddittoria del quotidiano attuale – dei nostri modi di vivere, di pensare, di agire – che si sono concretizzate in modo inequivocabile con il periodo della pandemia e della guerra “alle porte di casa”.
Queste righe introduttive alla nuova fase/espressione del percorso di ricerca di “Millepiani”
vogliono sottolineare il significato di un lavoro collettivo, espresso in molteplici tonalità nei
contributi raccolti, su alcune dinamiche di resa contraddittoria del presente – dei nostri modi di
vivere, di pensare, di agire – che si sono concretizzate in modo inequivocabile con il periodo della
pandemia e della guerra “alle porte di casa”, come si sarebbe detto una volta. Si percepiscono infatti
delle crepe, comunque sempre più evidenti, sulla superficie del nostro quadro d’epoca, delle nostre
immagini/raffigurazioni del tempo: immagini che sembravano fino a poco fa nitide, chiare, ben
formate e soprattutto incisive e per qualcuno addirittura rassicuranti per ciò che lasciavano appunto
trasparire sotto la veste del risultato infine ottenuto di un ordinamento complessivo dell’esistere da
considerarsi incontestabile, imprescindibile. E certamente pazienza che in quel loro trasparire
“pulito”, essenziale, sparissero proprio le ragioni anche flebili di contrasto, di messa in discussione
dei loro riferimenti di valore, delle loro pretese di valere in modo incondizionato, ad ogni costo
(umano, ambientale, sociale, politico…). Ma la nostra idea è quella di prendere, di rilevare, tali
crepe ancora nel senso di aperture che fanno entrare più luce, cioè quello che è indispensabile per
cercare di vedere meglio, nonostante tutto. Scommettiamo ancora su quel senso di estraneità che
trova espressione nella nostra costitutiva relazionalità, nel nostro essere di parte (in ogni senso) e
quindi pure positivamente “aperti” di fronte al manifestarsi dell’inatteso, dell’imprevedibile, del
differente. In tale prospettiva si spiega il rilancio e la proiezione sul “nostro” presente di tradizioni
di pensiero filosofico (intimamente “straniero”) particolarmente predisposte a fare i conti con
contingenze storiche drammatiche, anche nel tentativo consapevole di accompagnarle con le punte
teorico-pratiche di maggiore radicalità che si manifestano oggi nei diversi “campi di battaglia” che
si sovrappongono negli spazi dell’esistere.
Un esempio cruciale di tali “campi di battaglia” può essere quello fornito dal quotidiano, stravolto
da quelle trasformazioni del nostro modo di vivere che si sono in particolare concretizzate
nell’esperienza del lockdown. Un quotidiano che appunto ci viene restituito, anche nelle sue
componenti di maggiore “intimità”, nelle sue lacerazioni neppure più apparentemente
normate/normalizzate come nel caso delle sue ibridazioni per via tecnologica che riguardano –
sempre esemplificativamente – le modalità del lavoro o – come si è visto inequivocabilmente in
questo periodo pandemico – della cosiddetta “didattica a distanza” all’interno del sistema
complessivo dell’istruzione.
La “distanza” è però qualcosa che proprio ci interessa laddove ne sia rilevata la sua qualifica in
primo luogo bio-antropologica, segnalata dai molti che insistono sul nostro costitutivo essere di
relazione, di parte, che vorremmo ulteriormente rimarcare nella sua valenza sociale, da svolgersi
criticamente, in termini dunque radicali, nel senso di significarne il suo valore d’incontro e di
scontro, il complesso di affezioni e affetti che ne contraddistingue la presenza, comunque
provvisoria e revocabile nei suoi assetti e configurazioni dati.
Si tratta infatti di realizzare “distanze”, opportunità di incontro e mediazione diverse da quelle
solitamente imposte anche sottolineandone l’apparente versatilità, una elasticità consegnata –
sembra irrimediabilmente – alla pseudo-logica della massimizzazione dei profitti, quella propria del
capitalismo in tutte le sue rovinose versioni.
Tentare di articolare tale “compito” è da accompagnarsi ad una maggiore comprensione, nei limiti
del possibile, di ciò che si definisce come “crisi del presente”, come difficoltà da parte nostra di
collocarsi in esso, di abitarlo sensatamente, di contribuire a un suo disegno nel quale possano
risaltare i valori della cooperazione/condivisione e della solidarietà concreta e non saltuaria. “Crisi
del presente”: da leggersi allora nei seguenti termini, come difficoltà apparentemente irrisolvibile di
individuare in esso elementi di futuro, la possibilità – ripetiamolo – dell’imprevedibile,
dell’inatteso, del differente rispetto a ciò che risulta “istituito” in un qualche modo. Per afferrare
alcune delle sporgenze non banali di tale formulazione, si può fare riferimento pure all’idea di
matrice sociologica che il presente sia sempre “futuro passato”. Ecco, è propria del risvolto del
presente, che vale come traduzione di proiezioni temporali alternative al sempre uguale
incessantemente riprodotto dalla logica di funzionamento del modo di produrre, questa
manifestazione di una sorta di “utopia” che si rivela come “concreta”, materiale, come scriveva
Ernst Bloch, in grado di spalancare altre strade, di stimolare ad un altro modo di vivere il/nel
mondo, standoci dentro, coltivando l’idea che tutto potrebbe essere diverso da come viene
realizzato e si manifesta. Si ha in fondo un bisogno vitale di fuori-uscire dall’istituito e dal suo
rovinare continuo, un desiderio di “trascendere” che non si rivesta degli abituali orpelli della
“trascendenza ultraterrena” (oltretutto sempre più legata appunto al frantumarsi in mille pezzi del
presente): in sintesi, si ha l’obbligo (qualche vincolo ci può stare… per noi, esseri di relazione) di
cercare di stare nel mondo, di collocarsi in un presente sapendolo aperto, intimamente “utopico”,
disposto decisamente all’articolazione di differenti esperienze del tempo.