millepiani 43 è disponibile in libreria!
Copertina
Indice
7. Premessa
di Tiziana Villani e Ubaldo Fadini
11. L’inatteso tempo dell’adesso
di Tiziana Villani
21. Filosofia afferrata per tempo. Per una critica del presente
di Ubaldo Fadini
37. Perché è necessario rinnovare la critica
di Stefano Righetti
57. Apprendimento, funzione. Qualche appunto in chiave critica
di Igor Pelgreffi
79. Contro la digitalizzazione
di Cosimo Lisi
101. Del bisogno radicale di rovesciare l’infelicità
Ipotesi per l’ecologia di un sentimento sociale
di Gianluca De Fazio
117. Pratiche creative di conflitto
di Francesco Demitry
129. Note su un pensare-paesaggio
di Piergiorgio Caserini
143. Illich tra passato e presente.
Critica della società (post)industriale
di Marco Tronconi
155. I quadri di Stefano Vailati
di TizianaVillani
Premessa
In che modo e con quali strumenti è possibile interrogare il nostro presente che si pone come un tempo sospeso, solcato non solo da pandemie e guerre ma anche da crepe, margini e aperture insospettate? In questo volume gli autori si sono impegnati nel tentativo di riattivare strumenti critici provenienti da scuole di pensiero, come ad esempio quella di Francoforte, che sono stati capaci di elaborare una critica del quotidiano protesa a formulare “futuri possibili”. Queste riflessioni nel percorso di ricerca di “Millepiani” vogliono sottolineare il significato di un lavoro collettivo, espresso in molteplici tonalità nei contributi raccolti, su alcune dinamiche di resa contraddittoria del quotidiano attuale – dei nostri modi di vivere, di pensare, di agire – che si sono concretizzate in modo inequivocabile con il periodo della pandemia e della guerra “alle porte di casa”.
GLI AUTORI: Tiziana Villani, Ubaldo Fadini, Stefano Righetti, Igor Pelgreffi, Cosimo Lisi, Gianluca De Fazio, Francesco Demitry, Piergiorgio Caserini, Marco Tronconi.
Approfondimenti
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Partecipanti:Ubaldo Fadini, Marco Tronconi, Gianluca De Fazio
Ubaldo Fadini:
Affrontare il problema del quotidiano significa mettere al centro della filosofia critica l’attenzione alle trasformazioni del nostro modo di sentire e di pensare al fine di considerare e studiare i processi di trasformazione antropologica del nostro presente, un presente in cui la distinzione tra tempo “libero” e tempo di lavoro diventa sempre più sfumato.
Si potrebbero fare dei richiami alla sociologia del quotidiano (es. i lavori di Sennett alla fine degli anni Novanta).
È in particolare la dimaensione “flessibile” del lavoro e la sua conseguente “precarizzazione” a essere messa al centro di una critica del quotidiano. Occore studiare i cambiamenti continui delle attività lavorative cui corrispondono cambiamenti di vita, di affetti, di relazioni.
La precarizzazione del lavoro non è una fase transitoria: sembra sempre più una fase “duratura”, un nuovo orizzonte più o meno permanente nel quale si inscrive la tematica del lavoro, e con esso del quotidiano.
Il capitalismo mette a valore tutto del vivente, finanche la sua “attività” dormiente, anche il nostro dormire viene messo a valore.
Ancora i richiami alla tradizione socioogica: le attenzioni di Lefevbre alle trasformazioni dell’urbano nella metà del Novecento; Ágnes Heller e l’ontologia sociale: il quotidiano, la critica del quotidiano assume un problema propriamente etico. È nell’attenzione al quotidiano che emergono i processi di trasformazione sociale.
Quello del quotidiano è sempre di più oggi impattato dai processi di trasformazione capitalistica in cui viene meno la distinzione tra lavoro e non lavoro. Il venir meno di questa distinzione è dovuta alle differenze e ai cambiamenti delle necessità odierne nel “quotidiano”.
Ambito del quotidiano: un ambito in cui vi è mescolanza di azioni e passioni di differente segno che oggi subiscono delle accelerazioni sempre più rapide
L’analisi e lo studio critico di questa trasformazione fa emergere la labilità della distinzione tra lo spazio domestico e quello lavorativo. Il venir meno di questa distinzione impatta sull’immaginazione ma anche sulle capacità conviviali dell’essere umano. La divisione precedente tra lavoro e domestico era solo un’apparenza di “vivere a casa propria”, in quanto lo stesso tempo libero rimaneva comunque eteronomo rispetto alla dimensione della produzione e interveniva comunque nella trasformazione e nella “cattura” di quegli spazi e ambiti in cui l’immaginazione poteva ancora avere qualche spazio rispetto alla produzione e al lavoro.
Marco Tronconi: Legge un brano di Ivan Illich:
“Il vocabolo crisi – scrive Illich già nel 1978 – indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i Paesi diventano casi critici. Crisi, parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire «scelta» o «punto di svolta» ora sta a significare: guidatore dacci dentro! Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di manodopera e tecnica gestionale. Le cure intensive per i moribondi, la tutela burocratica per le vittime di discriminazione, la fissazione nucleare per i divoratori di energia sono, a questo riguardo, risposte tipiche. Così intesa, la crisi torna sempre a vantaggio degli amministratori e dei commissari, e specialmente di quei recuperatori che si mantengono con i sottoprodotti della crescita di ieri: gli educatori che campano sull’alienazione della società, i medici che prosperano grazie ai tipi di lavoro e tempo libero che hanno distrutto la salute, i politici che ingrassano sulla distribuzione di un’assistenza finanziata in primo luogo dagli stessi assistiti. La crisi, intesa come necessità di accelerare non solo mette più potenza a disposizione del conducente, e fa stringere ancora di più la cintura di sicurezza dei passeggeri; ma giustifica anche la rapina dello spazio, del tempo e delle risorse, a beneficio delle ruote motorizzate e a detrimento delle persone che vorrebbero servirsi delle proprie gambe. Ma «crisi» non ha necessariamente questo significato. Non comporta necessariamente una escalation del controllo. Può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa crisi, nel senso appunto della scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero […]. È dunque chiaro che non c’è quasi alcuna comunità al mondo cui non si ponga esattamente la medesima scelta cruciale: o continuare ad essere mere cifre nella folla condizionata che è sospinta verso una sempre maggior dipendenza ( ed essere così costretti a feroci lotte per strappare la propria razione di droga) o trovare quel coraggio che è l’unica possibilità di salvezza in una situazione di panico: il coraggio di restare fermi e di guardarsi attorno alla ricerca di una via di scampo diversa da quella su cui tutti si precipitano perché c’è scritto «uscita»”.
llich nella sua prima fase di critico delle istituzioni, anni 70, pensa alla necessità di rovesciare le istituzioni per riporle al servizio del sociale e del singolare. Invetire l’inversione che fa si che un mezzo diventi scopo e cannibalizzando ogni energia e ogni domanda di autonomia, di uguaglianza e di comune. Presupposto: esiste una distanza tra operatore e strumento. Il primo non è conseguenza diretta, rinculo del secondo. L’operatore ha suo desideri irriducibili alla società istituzionalizzata nella quale vive.
Nella seconda fase, epoca dei sistemi l’uomo è parte integrata del sistema, suo meccanismo interno. Fine della distanza: il sistema produce l’uomo direttamente nelle sue affettività. Interrogare la nostra sensibilità per comprendere il chi stiamo diventando, senza la quale è impossibile produrre un’etica-politica veramente all’altezza del tempo in cui viviamo.
Illich sottolinea che le epoche non si susseguono, sono contemporanee, simultanee.
Rilanciare il discorso sociologico proposto da Ubaldo da un’altra prospettiva. Il quotidiano può essere pensato come l’ombra del piano di immanenza: esso non è “dato”. Il quotidiano è coestensivo alla vita e si da sempre dentro all’interno di un sistema di forze o di assiomatiche più o meno dominanti. Questo sistema di forze configura la nostra sensibilità, la modifica.
Ma se la nostra sensibilità è interna a questa assiomatica, come poter fare una Critica? Come fare critica se si è interni? Serve “distanza” per poter criticare. Domanda: ha ancora senso per chi voglia assumere l’atteggiamento critico continuare a “parcellizzare” le discipline come la filosofia o la sociologia?
Occorre fare il piano di immanenza, costruirne uno che “superi” l’ombra. Serve uno stile differente dalle dinamiche date e dominanti.
Doppia ricaduta.
Richiamo a Rancière: mette in fuori uso. Si tratta di una critica affermativa: occuparsi in un altro modo. È il tema dell’occupazione: occupare uno spazio significa ridefinirne la funzione. Nell’occupazione come messa fuori uso o di un uso altrimenti emerge la possibilità dello scarto (e dunque della distanza critica e di una diversa sensibilità). È un richiamo all’idea di respirare, far spazio.
- Ricaduta etica dei “dintorni”, pensati in modo non cartesiano. Pensare i dintorni significa chiedersi: da e di cosa siamo fatti? Che cosa, da fuori, ci configura? La risposta, parziale, è: siamo informati continuamente dal di fuori. Da cosa dipendiamo? Ecco un’altro modo di articolare la domanda sui dintorni, essendo le “dipendenze” una delle articolazioni in cui il Capitale funziona sui corpi. Il problema dei dintorni fa emergere il tema dei “compromessi”, termine da usare con tante virgolette. L’atto politico di “compromesso” nei dintorni è sempre un atto di selezione: significa comprendere le possibili percorribilità per occuparsi altrimenti.
Gianluca De Fazio
Problema dei bisogni. Richiamo a Á. Heller, la Teoria dei bisogni radicali in Marx.
Il quotidiano come ambito di sperimentazione della produzione di bisogni. Mettere al centro di una filosofia critica la teoria dei bisogni radicali è fondamentale se si accoglie l’idea che il capitalismo produce “Bisogni arificiali” nel nostro vivere quotidiano (Keucheyan): rimettere al centro una teoria dei bisogni capace di essere (quanto meno) alternativo alla sussunzione dei bisogni dell’animale umano alla teleologia delle necessità della produzione.
La teoria dei bisogni radicali è oggi utile a ripensare i bisogni e la critica all’artificialità dei bisogni senza assumere un atteggiamento pauperistico nei confronti dei bisogni. Permette di uscire dalla dicotomia tra bisogni naturale e bisogni artificiali: è teoricamente controproducente opporre all’artificialità dei bisogni capitalistici un pauperismo di bisogni naturali e “auttentici” dell’animale umano. In entrambi i casi si opera un processo di naturalizzazione e di feticismo nei confronti dei “bisgoni radicali” dell’animale umano.
Ritrovare un protagonismo attivo – e critico – dei bisogni radicali significa ritrovare un protagonismo dell’animale umano inteso come “forza vivente”, come “forza lavoro”: significa rivendicare una autonomia dei bisogni (della finalità senza scopo) dell’umano rispetto alle necessità teleologiche della produzione riscoprendo un primato della soggettività di contro ai processi di “messa a valore” dei bisogni.
La sussunzione dei bisogni alle necessità capitalistiche produce una “proletarizzazione” di massa della forza lavoro e delle soggettività: una sempre maggiore povertà di bisogni ridotti solo a quelli utili per la produzione. Più una soggettività appare povera di bisogni, maggiore sarà la cattura e la presa del capitale. Ma soprattutto la teoria di Heller è importante oggi perché permette di riscoprire la dimensione necessariamente sociale del bisogno, mentre la proletarizzazione dei bisogni artificiali – cioè la riduzione a quelli strettamente necessari alla riproduzione del capitale – tende a individualizzare il bisogno e dunque a una sempre più crescente individualizzazione della soggettività, invisibilizzando – di qui il carattere feticistico della teleologia produttivista – il portato sociale della trasformazione, nel quotidiano appunto, di un rinnovato protagonismo della teoria dei bisogni radicali.
Ripensare i bisogni singifica ripensare la centralità del lavoro vivo nella possibilità, utopisticamente di abolire, più mestamente di trasformare il presente stato di cose.
Igor Pelgreffi domanda a Marco:
Mettere fuori uso: che vuol dire? Da quale posizionamento si parte?
Marco risponde: Non si tratta di una questione teoretica. Dal mio punto di vista la filosofia non è puramente teoretica: si tratta di mettere fuori uso la stessa filosofia, ossia metterla fuori dalle dicotomie tra teoretico e pratico. La critica è immediatamente pratica.
Il problema è come dare corpo e far durare una implicazione? Siamo nell’ordine del fare e dell’imprevedibile. Il problema pratico è: come fare che il Vero Bene possa diventare infine il Sommo bene? Ecco questo è il mio posizionamento di partenza.
Ubaldo
Riprende il tema attraverso i temi della rottura, dello scarto, del non far funzionare
Siamo dentro a un mondo in cui le trasformazioni delle sensibilità ci restituiscono un plus di protagoniso da parte della soggettività.
L’apologia del “non far funzionare” è senz’altro un’esigenza comprensibile, ma è solo una parte, un aspetto della questione: si può fare attivamente di più del solo smarcamento. Si deve piuttosto tendere a funzionare bene al di fuori delle dinamiche dominanti. Un buon uso della tecnica deve poter andare anche al di là della rottura.
Ritrovare un protagonismo delle soggettività per trasformare la nostra sensibilità al di là del modo di produzione capitalistico.
L’idea di sabotaggio andava bene in un momento storico in cui vi era la separazione tra lo spazio domestico e quello di lavoro della soggettività.
Oggi il dominio è interno al soggetto: occorre fare i conti con le fasi storiche in cui ci si trova.
Stefano Righetti: osservazioni.
È d’accordo con Ubaldo. È contrario a un primato del pratico e a forme di soggettivismo. Contro una filosofia per la filosofia e contro un’idea di campo del pensiero come campo autonomo.
Serve un pensiero che condivide una lotta, un bisogno, etc.
Oggi ci troviamo di fronte alla nascita di movimenti in cui non c’è pensiero e che invece potrebbe esserci (es. Friday For Future).
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Partecipanti: Cosimo Lisi, Francesco Demitry, Stefano Righetti, Tiziana Villani
Villani
I nodi emersi dalla discussione vertono sulla necessità di considerare la spazialità, l’urbano, i territori nelle loro diverse configurazioni che tuttavia appaiono attraversate da alcune tendenze comuni che considerano i processi sociali, alla luce delle accelerate trasformazioni tecnologiche, antropologiche, ambientali.
Diverse sono le sottolineature che vengono analizzate, il meccanismo acefalo della mega-macchina del modello unico dominante che seleziona e discrimina in ragione delle condizioni materiali di vita, di cura e di sapere.
Quindi in questo passaggio ciò che si è consumato non è tanto l’esercizio di un pensiero dogmatico e violento quanto il prodursi di trasformazioni che attraversano l’intera sfera esistenziale dell’individuo attraverso il rimodellamento della “macchina burocratica”. Non a caso Fisher rimanda a Deleuze e Guattari quando scrivono: “Perché non dire solo che il capitalismo sostituisce un codice con un altro, e che effettua un nuovo tipo di codificazione? Per due ragioni, di cui una rappresenta una sorta di impossibilità morale, l’altra un’impossibilità logica. Nelle formazioni precapitalistiche si incontrano tutte le crudeltà e tutti i territori, frammenti di catena significante sono suggellati dal segreto, società segrete e gruppi di iniziazione, ma non c’è mai nulla di inconfessabile nel vero senso della parola. L’inconfessabile incomincia con la cosa, con il capitalismo: non c’è operazione economica o finanziaria che, una volta tradotta in termini di codice, non liberi il suo carattere inconfessabile, cioè la sua intrinseca perversione o il suo essenziale cinismo (l’età della cattiva coscienza è anche quella del puro cinismo)”. (Anti Edipo, p. 281)
Lisi
Domenica 23 ottobre, durante il momento di scambio e sintesi dei lavori riportati nei tavoli il giorno precedente, sono intervenuto sul dibattito relativo all’utilizzo o meno del termine « controllo » per descrivere processi che strutturano le società contemporanee. Un intervento precedente faceva notare come le masse desiderino il fascismo e che parlare di controllo non era adeguato alla descrizione dei processi contemporanei. Nel mio intervento facevo notare come sebbene sia corretto rilevare il desiderio di fascismo delle masse e criticare quindi la visione che vede l’autoritarismo come un dispositivo esterno alla società e solamente repressivo (posizione già a suo tempo assunta da Bataille, e in seguito da Deleuze e Guattari), questo non inficia la validità di una critica del controllo e dei dispositivi di identificazione e selezione digitali utilizzati anche dagli apparati di stato, critica assunta da diversi strati delle classi subalterne. Facevo quindi riferimento alla situazione francese odierna dove da un lato assistiamo al presentarsi di manifestazioni anti-migranti dirette dall’estrema destra che strumentalizza un fatto di cronaca nera, dall’altro al presentarsi di un forte movimento sociale articolato su una piattaforma sindacale di lotta contro il carovita e per l’aumento generale dei salari, ma che presenta al suo interno anche delle critiche al razzismo istituzionale e all’islamofobia nei luoghi di lavoro e una critica all’utilizzo degli algoritmi digitali come strumenti di controllo ( come nel caso del lavoro per le piattaforme logistiche o nel caso dell’ applicazione “Parcoursup” utilizzata per la selezione scolastica al liceo). La domanda che ponevo alla fine del mio intervento, e che si pongono alcuni settori di movimento, è constatata la messa al lavoro completa della vita e la fine della distinzione tra tempo libero e tempo di lavoro (come ricordava Fadini nel suo intervento) quale nuova forma potrebbe assumere uno sciopero?
Demitry
I nodi proposti sono:
- urbano: mi sono chiesto, riprendendo Lefebvre, “che cos’è l’urbano?”, intendendolo anche come “luogo del desiderio e del legame dei tempi”, campo dei rapporti e insieme di differenze, provando poi a creare una connessione con l’idea di Tarde per cui non siano le società ad essere degli organismi, ma gli organismi ad essere diventati delle società di tipo particolare;
- corpi e attraversabilità: qua gli autori di riferimento sono stati Virilio, Benjamin, Michaux e Vaneigem, facendo dei passaggi veloci su smarrimento, tragitto, scoperta, abitudine, assuefazione allo spazio dei quartieri (noi diventiamo “oggetti passeggeri” programmati dalla nostra propria “motricità”, così come dal sistema viario dei quartieri”) e circolazione (“l’organizzazione dell’isolamento di tutti”) intesa come il contrario dell’incontro;
- velocità: ho utilizzato i due concetti di velocità relativa, che riguarda il trasporto, lo spostamento dei corpi, delle merci: tutto ciò che sta dentro una conquista territoriale di uno spazio reale; e di velocità assoluta, che ha a che fare con la trasmissione dei messaggi dell’interattività: conquista dell’assenza di estensione dell’istantaneità. L’istantaneità, la perdita di distanza e di termine, permette allo stato di emergenza di generalizzarsi;
- immaginario: la sincronizzazione dell’opinione e la “cronopolitica dell’istantaneità” modificano l’immaginazione politica, producendo una chiusura dell’immaginario che, anche in ambiti che dovrebbero essere “critici”, porta anche a speranze mortifere e distruttive, fino all’invocazione dell’estinzione;
- tempo: gli autori di riferimento sono stati Debord e Lefebvre. Per Debord “l’uso della vita quotidiana, nel senso di un consumo del tempo vissuto, viene imposto dal regno della rarità: rarità del tempo libero e rarità dei possibili impieghi del tempo libero”; per Lefebvre “gli spazi del tempo libero appaiono affrancati dal lavoro e liberi, quando invece sono uniti ai settori del processo lavorativo nel quadro del consumo organizzato, del consumo dominato”. Questi “spazi del tempo libero” sono luoghi dove recuperare le energie per essere performanti il giorno dopo al lavoro, luoghi solo apparentemente di festa e libertà. Il tempo in quest’ottica è una merce suprema che si vende e si acquista: “il tempo si organizza in funzione del lavoro produttivo e della riproduzione dei rapporti di produzione nella quotidianità”;
- critica e pratiche: serve mettere in pratica un’analisi critica che, come scriveva Lefebvre, “definisca come e secondo quale strategia è stato prodotto lo spazio esistente”. Per Vaneigem urge una critica vivente che stabilisca “delle basi per una vita sperimentale: aggregazione di persone che creano la propria vita su luoghi attrezzati a loro misura”. Guattari suggerisce di ‘pensare trasversalmente’ le interazioni tra ecosistemi, meccanosfere e universi di riferimento sociali e individuali”. Cosa significa? Che bisogna ripensare le relazioni, il modo in cui si vive e si interagisce, il rapporto con il linguaggio, adoperandoci “alla ricostruzione dei rapporti umani a tutti i livelli del sociale, consapevoli che non stanno scomparendo soltanto le specie, ma anche le parole, le frasi, i gesti della solidarietà umana”, e che, come scriveva Gorz (Ecologia e libertà), “senza la trasformazione dei mezzi di produzione, il cambiamento della società resterà formale ed illusorio
Righetti
Sembra importante delineare linee di ricerca che ridefiniscano alla luce della contingenza il rapporto tra individualità e pluralità. Questo implica la necessità di ricondurre la critica alla dimensione del bisogno. Il che significa necessità di superare qualsiasi problematica relativa anche a una funzione o meno della filosofia. La filosofia deve declinarsi in un rapporto di scambio con la contingenza che ne sviluppi anche la riflessione oppure il suo riflettere rimane astratto. È la condizione materiale e spirituale del bisogno a richiamare la necessità della riflessione. E in questo senso la riflessione è già una decisione rispetto al bisogno.
Occorre tuttavia definire criticamente il bisogno nel momento in cui esso si presenta in una doppia condizione negativa: a) come una povertà del bisogno (come incapacità a prendere voce del bisogno, a rivendicarsi in quanto bisogno); e, dall’altro, b) come un’artificialità sempre più invasiva di bisogno (nella forma di modelli di vita, standard di efficienza e salute, canoni estetici, culturali, sociali).
Questa necessità di ridefinire criticamente il piano del bisogno comprende anche il modo (o i modi) in cui il conflitto si esprime all’interno dell’usuale gerarchia controllo-repressione, costringendo la possibile articolazione del bisogno (la sua rivendicazione di necessità) a confrontarsi con l’attuale modello di sviluppo e con il suo impatto complessivo.
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Partecipanti: Igor Pelgreffi, Ivan Bedeschi, Elsa Finardi, Piergiorgio Caserini, Stefano Vailati
Il nostro tavolo segue i primi due e, in una certa misura, ne viene alimentato: li verifica e li “riflette” diversamente, anche sulla scia degli interventi artistici Tempo, lavoro e cura di Elsa Finardi e Corpi, carne, linee di trasformazione di Stefano Vailati. Tre sono gli assi attorno a cui si sviluppa la questione “trasformazioni della sensibilità”, nel suo valore critico. Riprendendo le parole di Tiziana: 1) la questione degli “spazi di vita”, variamente intesi, della loro crisi e della loro urgenza; 2) la questione dell’accesso al minimo: riemergono sulla scena sociale bisogni primari, livelli di povertà e piani di sopravvivenza, paragonabili ormai a quelli dell’800; la questione di nuovi rapporti, anche qui sempre più “minimi”, sottili ma pervasivi, del sapere/potere.
Siamo prossimi, storico-socialmente, a un grado zero delle sofferenze dei corpi, un dégrée zéro degli spazi di vita, delle vulnerabilità psico-corporee. Ivan Bedeschi esprime questa condizione portando al centro il tema della disobbedienza civile come pratica di vita, come tematica di una modificazione dei rapporti di forza nei corpi, in relazione alla (mancata) concessione di diritti, al tema dell’ipercontrollo, ai problemi dell’utenza nelle strutture, anche pubbliche, di ascolto, cura, istruzione. La distribuzione di un (sia pur minimo) livello di diritto su base collettivista, appare oggi come una prospettiva definitivamente tramontata. È l’individuo (e non il processo di individuazione) che oggi si rapporta con il potere, e lo fa in modo traumatico/diretto, esperendo forme di “dipendenza” senza intermediazioni, entro una relazione che tende a escludere ogni mutualismo. I riferimenti corrono quindi a esperienze concrete: dalle nuove emarginazioni micro-urbane, al lavoro nelle scuole, dove dalla Legge Gelmini in avanti (probabilmente, però, già da prima…) si è teso a negare ogni valore alle funzioni mutualistiche; sino al tema degli schemi di “cura”, ad esempio di disagio psichico, dove appare sempre più lontana un’esperienza come quella di Basaglia, che poneva al centro la con-divisione della malattia entro uno scambio – di nuovo – di un rapporto sapere/potere molto più orizzontale. Emerge qui, come punto di snodo, il vecchio tema del corpo. Seguendo Igor Pelgreffi, si evidenzia l’emergenza di una corporeità/sensibilità sfibrata, sofferente, completamente riplasmata quanto ai rapporti tra attenzione e passività, tra prestazione accelerata e “bisogno di rallentamento”, nelle esperienze depauperanti della didattica a distanza ma, più in generale, della digitalizzazione delle esistenze recentemente acuitasi, ma da lungo tempo in atto, con associata richiesta di prestazione sempre più performante. L’attenzione e le sue trasformazioni vanno studiate a fondo, ad esempio rivalutando – come forma di resistenza – la matrice sociale dell’attenzione stessa (nel senso che noi non facciamo mai davvero attenzione solo a un oggetto, ma siamo sempre socialmente pre-orientati e con-dividiamo modi e culture attentive, spesso inconsciamente). Per una visione critica di queste trasformazioni, occorre reinventare i rapporti tra attenzione e distrazione, tra “funzionare” bene e “non funzionare”, nel senso in cui Adorno scriveva che “in una società funzionale, in cui gli uomini sono ridotti a delle funzioni, nessuno è anche indispensabile: chi ha una funzione può essere anche sostituito e soltanto chi è privo di funzione potrebbe in generale essere insostituibile”.
Il tema degli “affetti” si prefigura dunque luogo di una possibile istanza resistente, ancora nonostante tutto non funzionante e proprio per questo forza-viva non ancora (del tutto) assoggettata. I corpi, apprendendo forme più complesse di attenzione/distrazione, così come assorbendo pre-logicamente relazioni mutualistiche, sono la concreta istanza critica insidiantesi nelle crepe del presente. Perché, nonostante l’avvicinamento al grado zero, di cui sopra, il corpo comunque devia, aspira, desidera altro, rallenta quando “non ce la fa”: anche questa è una risorsa. Il corpo dissente: si rifiuta di apprendere ciò che “non vuole”. Apprende a disapprendere: noi non sappiamo cosa può un corpo, e soprattutto una molteplicità di corpi “in relazione”. Il non sapere: un fondamentale anello di disgiunzione del nesso sapere/potere e leva per il non avere una funzione controllabile, automatizzabile, “attenzionabile” dal potere, etc..
Per una critica della sensibilità e delle sue trasformazioni eccessivamente accelerate/alienanti, l’idea è di ripartire – come anche lasciano pensare le riflessioni di Piergiorgio Casarini sul fatto artistico – dalla capacità di non-sapere (che è assieme potere) immanente ai corpi, dal loro “funzionare altrimenti”. Quei corpi che oggi storicamente soffrono, che sono en souffrance come, di nuovo, le immagini di Stefano Vailati suggeriscono silenziosamente, sullo sfondo: dietro di noi, davanti a noi.